A cura della Dottoressa Giulia Carli, SOSD Allergologia e Immunologia, Prato
Le reazioni avverse a farmaci (RAF) sono reazioni non intenzionali e dannose che si verificano a seguito della somministrazione di un farmaco al dosaggio standard. Si tratta di eventi abbastanza comuni, che interessano il 15-25% dei pazienti; reazioni gravi si manifestano nel 7-13% dei casi. La maggior parte delle reazioni sono prevedibili, dipendono dalla dose e sono dovute al meccanismo di azione del farmaco stesso (effetti collaterali, interazioni con altri farmaci). Il 20-25% delle RAF sono invece imprevedibili e dipendenti dall’interazione tra il farmaco e il soggetto suscettibile: di queste il 5-10% sono definite reazioni allergiche (o reazioni da ipersensibilità), dipendenti dal sistema immunitario del paziente, con molteplici meccanismi e quadri clinici diversi.
Le reazioni avverse ai farmaci biologici
Nell’ambito delle reazioni avverse a farmaci, quelle ai farmaci biologici (anticorpi monoclonali, proteine prodotte con biotecnologie…) rappresentano un problema emergente, per il loro sempre maggiore utilizzo, ed hanno anche specifiche peculiarità, in relazione innanzitutto alla struttura e alle grandi dimensioni di questi prodotti ma anche al loro complesso processo produttivo. Per questo motivo le reazioni avverse a biologici possono ad esempio causare o favorire fenomeni infiammatori oppure far emergere malattie allergiche o autoimmunità o anche agire su bersagli diversi rispetto a quelli attesi. Più comunemente, le reazioni a biologici dipendono invece dalla produzione di anticorpi contro il farmaco (r. da ipersensibilità), influenzata sia da fattori propri del farmaco, sia da fattori legati al paziente e allo schema posologico. L’incidenza di reazioni è variabile tra i diversi biologici, anche in base alla regione geografica.
Come si manifestano?
Le reazioni possono essere immediate o ritardate, alla prima o alle infusioni successive. Clinicamente si presentano come arrossamenti, brividi, febbre, tachicardia, ipertensione arteriosa, difficoltà respiratoria, dolore lombare, o come reazioni anafilattiche (orticaria/angioedema, edema delle labbra e della lingua, nausea, vomito, diarrea e dolori addominali, broncospasmo, tosse, ostruzione nasale e difficoltà respiratoria fino allo shock anafilattico con ipotensione e perdita di coscienza). In alcuni casi si possono presentare anche fino ad alcuni giorni dopo la somministrazione con febbre, dolori articolari e/o alterazioni della funzionalità degli organi interni, comparsa di macchie rosse sulla cute oppure estese eruzioni cutanee (eritemi, bolle, pustole…), associate a sintomi sistemici e alterazione degli esami del sangue. Queste ultime rappresentano reazioni immuno-mediate ritardate caratterizzate fra l’altro da un rischio di mortalità elevato (DRESS, SJS, TEN, AGEP).
La diagnosi
Dal punto di vista diagnostico, una volta verificatasi la reazione, il prelievo ematico (emocromo, funzionalità epato-renale, dosaggio di citochine, triptasi…) consente di aiutare nella classificazione in base al meccanismo d’azione e di monitorare lo stato clinico del paziente. Dopo almeno 4-6 settimane e non più di 6 mesi dalla reazione, si possono effettuare i test cutanei per confermare l’allergia. Più grave è stata la reazione, maggiore è la possibilità di trovare una positività ai test cutanei. Una ulteriore metodica diagnostica, in caso di test cutanei negativi, è il test di provocazione (challenge) con lo stesso biologico sospetto, da effettuarsi in ambiente protetto e ad opera di personale esperto. Con le stesse tempistiche dei test cutanei e del challenge, si possono ricercare gli anticorpi anti-farmaco o effettuare test di attivazione dei basofili (metodiche disponibili in alcuni centri).
Il trattamento
Il trattamento della reazione in acuto prevede la sospensione del farmaco e l’utilizzo, a seconda dell’intensità e del tipo di segni e sintomi, di adrenalina, ossigeno, liquidi, antistaminici, cortisonici, sintomatici (paracetamolo, antileucotrieni…). In alcuni casi, una volta trattata la reazione, è possibile considerare la ripresa dell’infusione con una riduzione della velocità o modificando la dose.
In casi particolari, dopo l’accurata diagnostica, in assenza di valide alternative terapeutiche e valutando attentamente il profilo di rischio del paziente, si può proporre la desensibilizzazione, ovvero una procedura terapeutica che induce una tolleranza temporanea al farmaco e che consiste nella somministrazione dello stesso partendo da concentrazioni molto minori rispetto alla standard, con incrementi graduali sia delle concentrazioni che delle velocità di infusione. Non sono rare le reazioni durante la procedura, tuttavia, una volta trattati i sintomi, generalmente si completa il trattamento. La desensibilizzazione deve essere necessariamente effettuata in ambiente ospedaliero, gestita da personale esperto e concordata in ambito multidisciplinare.
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